testo di Simona Campus
«Mi trovai con il cuore gonfio di orrore e di commozione, impotente tra gente impotente, spettatore impietrito del ludibrio a cui i militi repubblichini avevano sottoposto i corpi di quei generosi nostri fratelli. Me ne tornai sconvolto; giunto nella casa di via Bagutta volli subito fissare sulla tela la memoria di quel sacrificio, volli immediatamente celebrare in pittura quanto avevo visto. Ma non avevo una tela e per tante ragioni non avrei potuto procurarmene una sul momento. Allora cominciai a dipingere sopra un altro mio quadro che rappresentava un ciclista. Dopo due giornate di lavoro conclusi I martiri di Piazzale Loreto… L’ho già detto, quelle scene mi avevano sconvolto. Eppure vi era in me, nel fuoco che mi agitava mentre dipingevo, nell’ansia che mi riempiva il petto mentre cercavo di esprimere quel che avevo visto, una tristezza immensa. Pensai, alla fine, che da quei corpi insanguinati e inerti si levasse un muto ammonimento per tutti gli italiani e, anzi, per tutti gli uomini: non di vendetta o di rancorosa ricerca dei torti e delle ragioni, ma di pace, di giusta pace».
Scriveva così Aligi Sassu, commentando una delle sue opere più emblematiche, in cui una luce livida, confusa «di orrore e di commozione», avvolge i corpi dei partigiani trucidati e oltraggiati in quel giorno di agosto del 1944. Opera emblematica della sua produzione e di un intero periodo storico-culturale, quando per molti artisti divenne eticamente necessario respingere ogni connivenza, seppur estetica, con il nazifascismo.
L’IMPEGNO POLITICO
A Milano – dove Aligi nacque nel 1912, da madre emiliana e padre originario di Thiesi, in provincia di Sassari – il primo gennaio del 1938 era uscito, per iniziativa di Ernesto Treccani, appena diciassettenne, il primo numero del mensile “Vita Giovanile”, diventato successivamente il quindicinale “Corrente di Vita Giovanile” e infine, semplicemente, “Corrente”; sotto lo stesso nome si raccolse il movimento di pittori, scultori e critici impegnati – come già, a Roma, la Scuola di via Cavour – nell’opposizione alla retorica figurativa, specchio della retorica di regime. Per il suo impegno politico, l’anno precedente, il 1937, Sassu era stato arrestato dalla polizia dell’OVRA, che nel suo studio aveva scoperto materiali per la stampa di un manifesto a sostegno delle Brigate Internazionali nella Guerra civile spagnola. I dipinti Fucilazione nelle Asturie (1935) e Spagna 1937 (1937) guardano entrambi al modello altissimo di Francisco Goya nella denuncia di un potere tirannico senza volto, senza senso, e nella rivendicazione della libertà. Libertà è parola chiave per comprendere Aligi Sassu, che sul principio degli anni Trenta inaugura la serie degli Uomini rossi. Chi sono gli Uomini rossi? Sono cavalieri, sportivi, i tanto amati ciclisti, giocatori di dadi, circensi, musicisti, ragazzi sulla spiaggia, passanti per strada. Oppure sono personaggi del mito, Argonauti per esempio, perché il mito simbolizza un’esperienza diretta, totale, integrale del mondo, esattamente come l’arte. Sono la sensibilità della materia cromatica, la pittura che si fa colore assoluto e bruciante. Sono, appunto, l’emozione inquieta della libertà, la stessa emozione che si percepisce negli altri soggetti prediletti da Sassu: a partire dai cavalli.
I CAVALLI E GLI ALTRI SOGGETTI PREDILETTI
Cavalli innamorati, imbizzarriti, in corsa, cavalli marini e cavalli alati, cavalli verdi, rosa, declinati e interpretati con svariate tecniche e materiali… Basti pensare al Grande cavallo rampante, fuso in bronzo nel 1960 e sistemato pressoché davanti alla Pinacoteca di Brera. Complementari ai cavalli ci appaiono i quadri di battaglie, composizioni che divengono progressivamente più complesse – fino alla Grande battaglia del 1951, preparata da un mirabile studio a sanguigna – in seguito ai ripetuti soggiorni a Parigi, durante i quali Sassu può ammirare e studiare nella chiesa di Saint Sulpice gli affreschi di Eugène Delacroix, padre del Romanticismo. L’eco di un altro protagonista dell’Ottocento francese, l’impressionista Pierre-Auguste Renoir, risuona invece nella scena di ambientazione moderna intitolata Il grande Caffè, lasciata interrotta al momento dell’arresto e terminata nel 1940, sintesi matura e sofisticata di molteplici impulsi, manifesta dichiarazione d’amore per la storia dell’arte.
Non esiste soluzione di continuità tra passato e presente, e neppure tra realtà e finzione letteraria: episodi sacri e antiche vicende si fanno metafora dell’attualità, mentre una novella di Guy de Maupassant, Maison Tellier, può diventare motivo per osservare, con solidarietà, gli emarginati.
LE OPERE IN SARDEGNA
Un profondo sentimento dell’impegno si conferma nelle numerose opere ubicate in Sardegna. Da artista ormai cosmopolita, Sassu torna nell’Isola perché è la terra di suo padre, che per primo gli ha trasmesso l’importanza della coscienza civile, perché da qui si spiega quell’istinto alla libertà che tanto lo contraddistingue e lo anima. Nel 1950 definisce un cambiamento radicale nel significato della pittura murale, dipingendo nella foresteria di Monteponi il buio del lavoro in miniera, la fatica dentro alle cave, la lotta contro la pietra e contro il buio, a contrasto con un soleggiato contesto paesaggistico. Sui colori abbacinanti del paesaggio mediterraneo l’artista si sofferma spesso, negli scorci sulcitani come in quelli di Maiorca, un’altra isola guarda caso, dove nel 1963 si trasferisce insieme alla moglie Helenita, e dove si sarebbe spento, alla fine di una lunga esistenza, nel 2000. Per tornare alle opere in Sardegna, un’ulteriore riflessione sulle condizioni di lavoro, non più in miniera ma in fabbrica, e la rivendicazione dei diritti, danno forma a Lo sciopero, olio su tela del 1956 esposto alla Galleria Comunale d’Arte di Cagliari, con fredde tonalità blu a sottolineare l’andamento da automi e l’angoscia sui visi sfigurati degli operai. A Cagliari, dieci anni più tardi, nel 1966, prendono vita i mosaici per la chiesa di Nostra Signora del Carmine, distrutta dai bombardamenti del 1943, interamente ricostruita nel dopoguerra; cinquecento metri quadri di tessere scintillanti ripercorrono La vicenda dei Carmelitani e celebrano la fede come redenzione dai soprusi e dalla viltà dei potenti. I disegni preparatori a pastello costituiscono una preziosa testimonianza della genesi di questo ciclo monumentale: di eccezionale forza espressiva l’Angelo rosso della Giustizia, acquisito alla collezione della Fondazione Banco di Sardegna.
IL MUSEO ALIGI SASSU A THIESI
Se altri affreschi e mosaici s’incontrano a Ghilarza, Nughedu San Nicolò e Ozieri, oggi è soprattutto il Museo Aligi Sassu di Thiesi a promuovere la figura dell’artista. Istituito nel 2010, il museo nasce intorno all’intervento murale del 1962, dapprima all’esterno delle scuole elementari del paese, poi incorporato all’interno per motivi di conservazione, ora nucleo della struttura espositiva: la rivolta antifeudale di Giovanni Maria Angioj, che issa sulle proprie spalle il vessillo dei quattro mori, e subito sotto, sulla stessa parete, l’immagine in trachite rosa e pietra vulcanica di una donna distesa, che nell’atto di sollevarsi appoggiandosi sulle braccia personifica la Sardegna risorgente a nuova vita. Il museo possiede una collezione di grafica, frutto di differenti donazioni, per la valorizzazione della quale vengono proposti specifici programmi didattici. Vi si trovano rappresentati i grandi temi dell’arte sassiana e i fogli di ispirazione letteraria, in particolare quelli dedicati a L’Orlando furioso. Sassu ha infatti illustrato Dante, Manzoni e molti altri autori, anche a lui contemporanei, ma l’universo poetico di Ariosto sembra essergli il più congeniale: un universo nel quale ogni persona e ogni amore hanno la propria legittimità, nel quale non importa la differenza tra saggezza e follia, tra paladini e schiavi, tra bianchi e neri. Nell’universo di messer Ludovico, come nell’universo di Aligi, contano l’arte e la libertà.
Nota. L’immagine, raffigurante l’opera I martiri di Piazzale Loreto, è tratta dalla monografia Aligi Sassu, di Simona Campus, edita da Ilisso nel 2005